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Di questo scrittore avevo già letto Le cose che non ho, il suo primo libro, del quale ho già parlato, e non una volta sola, in questo sito. Quel libro, che ho letto due volte (e non capita spesso che ne riprenda in mano uno per leggerlo la seconda volta), ha avuto il pregio di emozionarmi moltissimo. Almeno la prima volta. Comunque anche la seconda lettura, seppur certamente più “fredda”, mi ha lasciato l’impressione di un incontro importante. Quindi non mi ha stupito la voglia di precipitarmi a comperare e leggere il suo secondo libro. Che narra di un normale ragazzo di provincia che un giorno sente suonare alla porta di casa e si trova davanti … Scarlet Johansson. Non sto a descrivere nulla della trama, non ne vale la pena, chi vuole leggere il libro se la vedrà. Ma voglio dire che, evidentemente, Delacourt non riesce a lasciarmi indifferente, sa come parlarmi, attraverso i suoi libri. Stavolta però le sue parole hanno avuto un effetto assolutamente deleterio. Raramente un libro mi ha deluso tanto come questo. Aspettative eccessive? Forse, ma non mi aspettavo certo di leggere un capolavoro. Però mi aspettavo almeno una storia piacevole, ben raccontata, probabilmente non emozionante come la prima, ma godibile fino in fondo. Invece no. Partito da un’idea carina, la storia, secondo me, si perde fino a svanire nel nulla. Che lui sappia mettere una parola dietro l’altra per formare frasi sufficientemente strutturale è evidente, ma anche la scrittura francamente è riuscita a infastidirmi. Pretenziosa, autocompiaciuta, piena di citazioni che sanno più di esibizione che di arricchimento del testo.

Non me la sento di consigliarlo, ma se qualcuna delle infaticabili lettrici che conosco lo volesse leggere, mi piacerebbe molto sentire il suo parere. Magari proprio quello di qualcuna che non ha apprezzato il primo, chissà se il secondo la convince un po’ di più.. chi ha orecchie per intendere ha già inteso.

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Sono  inciampato in un’offerta Amazon, che mi proponeva a prezzi stracciati gli ebook  di Gabriella Genisi, autrice che non conoscevo.  Li ho presi, per curiosità. E ho scoperto che Gabriella Genisi scrive gialli nei quali la protagonista è una procace e simpatica poliziotta barese, Lolita, chiamata da tutti Lolì. Sono la tipologia di gialli che apprezzo di più, probabilmente perché son quelli in cui rischio, se sto attento, di capire sia chi è l’assassino sia perché lo ha fatto. Dopo la fine del romanzo, s’intende, non prima! Insomma, ritmi lenti, personaggi pochi, divagazioni molte, trame semplici. Quel che serve quando si vuol prendere in mano un libro (metaforicamente, questi, come quasi tutto quel che leggo, sono come detto su Ipad), ma le energie residue del giorno sono poche e la voglia di fare sforzi mentali è ridotta al minimo. Quel che mi ha colpito della lettura dei tre romanzi è la differenza che ho trovato nel leggerli. Se non avessi avuto gli altri già a disposizione, dopo il primo mi sarei fermato: non mi è spiaciuto, ma nemmeno dato una grande voglia di continuare a leggere di Lolì. Invece, avendoli scaricati, mi è venuto spontaneo dare un’occhiata anche agli altri due. Cominciato il secondo mi sono convinto che l’autrice sia molto maturata dopo la prima esperienza; in effetti  gli altri due hanno, secondo me, mostrato un deciso cambio di passo per quel che riguarda la godibilità e la qualità complessiva del libro. Non credo che stia nascendo una stella della scrittura gialla, mi pare che certe caratteristiche della poliziotta siano un po’ tanto tipiche di certa letteratura contemporanea, ma la lettura è piacevole, il tono è garbato, e qualche spunto è interessante. Tra questi mi sono piaciuti in modo particolare  gli evidenti richiami ad alcuni “padrini” letterari. Prima di tutto Camilleri, con il suo Montalbano, che Lolì conosce personalmente, e poi Montalban, con il suo Pepe Carvalho, e soprattutto l’evidente reminiscenza delle sue famose ricette culinarie. Se non mi sono distratto, non ci sono invece richiami espliciti alla Pedra Delicado di Jimenez Bartlett, che a me invece sembra proprio la sorella maggiore di Lolì. Certo, ci sono differenze, ma sono più  le somiglianze, compresa una certa disinvoltura con i signori uomini. La Bartlett però è più maliziosa, direi simpaticamente maliziosa, magari la differenza si spiega anche con la differenza d’età delle autrici.

In conclusione, se qualcuno ha voglia di leggere qualcosa di rilassante, se non ha intenzione di immergersi in un Larsson o in qualche americano da trecento pagine e seicento vicende intrecciate, se vuole sentire qualche profumo di Puglia, direi che almeno uno dei tre potrebbe provare leggerselo. E se ne non volete necessariamente seguire l’ordine cronologico d’uscita, allora per me il più riuscito è il secondo.

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Ammetto che non è stato granché facile decidere che cosa mi è piaciuto e che cosa no di questo libro … ma finalmente credo di aver capito il punto, e quindi posso scrivere la mia opinione. Però prima di parlare di questo, un accenno all’autore e alla trama del libro. Jonasson è noto al pubblico dei lettori di romanzi già dall’uscita  del suo primo libro, Il centenario che saltò dalla finestra e scomparve, successo strepitoso in Svezia, e non solo. Libro che ho letto, ma del quale non ricordavo nulla, e la cosa non mi stupisce, dopo aver letto il secondo. In realtà l’ho divorato, più che letto.  Il perché è semplice. Il racconto si snoda senza nessuna difficoltà di lettura, e la scrittura è spesso ironica, divertente, a volte davvero spassosa. Sorprendentemente spassosa a volte, intanto perché forse non te lo aspetti da uno svedese (basta pensare a tutta la giallistica scandinava che ci ha invaso negli ultimi anni, certo il giallo difficilmente è spassoso, ma i loro sono sempre molto cupi), e poi perché il fatto che in certi punti non ho proprio potuto trattenere una risata a voce alta, il che mostra che evidentemente avevo letto qualcosa che mi aveva divertito davvero, e che non aspettavo. Ricordo ad esempio una scena in cui il re di Svezia prova particolare simpatia per una attempata signora, per cui decidono di andare insieme a … beh a fare qualcosa di veramente sorprendente, almeno per un re…

Ed ora il solito accenno alla trama. La protagonista assoluta è una ragazzina nera di Soweto, che pulisce i gabinetti come attività principale e che, visto che siamo nel periodo dell’apartheid, non ha nessun accesso all’istruzione. Per di più senza sua colpa passa dal poco gratificante lavoro ad essere praticamente prigioniera in casa di un bianco impegnato in un mestiere difficile e pericoloso (che del resto porta avanti malissimo). Mirabolanti avventure la portano poi in Svezia, dove le succede di tutto e di più. Con un lieto fine.

Dicevo che nonostante il vero divertimento nel leggere molte delle pagine del libro, qualcosa non mi ha convinto. E’ evidente che tutto il libro racconta storie fantastiche, e che siamo abituati a leggere storie fantastiche, leggendole e appassionandoci (quando ne vale la pena), come se fossero reali. Nessuno chiede alla Commedia di Dante, o all’Alice nel Paese delle Meraviglie, di raccontare cose realistiche. Eppure qui a volte ho avuto l’impressione che il tono volesse quasi suggerire che la storia in fondo potrebbe essere credibile, magari facendo la tara a qualche racconto un po’ mirabolante. Oppure, detto in altre parole, forse l’elemento fantastico non è così dichiarato. Per questo in alcuni momenti mi è successo di essere un po’ spazientito dalle vicenda in corso di narrazione perché improbabile e senza un elemento  fantastico che in qualche modo la giustificasse.

In conclusione, non posso dire di aver letto un gran libro. Però lo consiglio caldamente a chi vuol fare una lettura che scorre veloce, divertente, molto ironica a volte. Jonasson sa davvero che cosa significa l’ironia, forse, penso io, per aver dovuto gestire fin da piccolo la totale mancanza di ironia di chi gli ha scelto il nome…

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La lettura del libro La lunga notte dell’angelo mi ha messo molta curiosità sulla sua autrice, per cui mi sono subito messo a leggere altre sue cose: una favoletta breve (Il bassotto e la regina) e questo romanzo. Non posso non cominciare dicendo che ho trovato irresistibile la sua copertina. E questo  non è poco per un libro: quel che vedi prendendolo in mano, se ti piace, ti mette subito in un’attitudine mentale molto accogliente.

La vicenda narra la storia di una ragazzina adolescente che scappa da Milano, dove vive con gli zii, per andare alla ricerca del padre, dopo un episodio terribilmente scioccante che le accade in metropolitana. La particolarità della storia di questa ragazza sta non solo nell’episodio traumatico che apre il libro ma anche nella situazione di avere un padre, quello che sta andando a cercare, e di essere contemporaneamente orfana di padre. Era infatti stata adottata da una coppia gay, ed uno dei due genitori  era morto in un incidente di moto. Questo aveva avuto un doppio effetto devastante sulla ragazza, perché di fatto aveva perso entrambi i genitori, in quanto il tribunale l’aveva affidata agli zii di Milano: il padre morto era per legge il legittimo genitore, e l’altro, nonostante la palese volontà della ragazza di stare con lui, non era stato giudicato adeguato al compito.  Come mia abitudine non vado oltre nella trama, chi vuole si legge il libro e scopre il resto. Quel che voglio dire è invece che la lettura di questo libro mi ha fatto pensare ad altre due scrittrici giovani, di cui ho letto qualcosa in tempi recenti: Chiara Gamberale e Margaret Mazzantini. Mi sembra che, pur nelle loro innegabili peculiarità, tutte e tre abbiano delle caratteristiche in comune. In particolare, il gusto di raccontare spesso storie abbastanza straordinarie per la cosiddetta morale corrente di fino a qualche tempo fa, ma che, forse, oggi sono diventate più accettate, accettabili, frequenti. Ecco allora la figlia di due padri, o il chirurgo della Mazzantini (Non ti muovere), che si ritrova a vivere due storie parallele che ci sembrano essere possibili solo per persone completamente diverse, o anche la vicenda, raccontata dalla Gamberale, della ragazza, figlia di fatto di tutto un condominio (Le luci nelle case degli altri). Tornando a questo romanzo, sono rimasto stupito dalla capacità di MM di cambiare completamente stile, sia rispetto al ponderoso libro sul Tintoretto, sia rispetto alla leggerezza della favola (che è forse la cosa tra le sue che mi ha convinto di meno). La sensazione prevalente è di aver letto un bel libro, anche se naturalmente non è difficile fare delle ironie sia sulla vicenda sia sullo stile di scrittura (segnalo a questo proposito la piuttosto velenosa recensione che appare qui: http://www.tempi.it/sei-come-sei-il-romanzo-dove-i-gay-maschi-aspettano-la-sveglia-biologica-per-affittare-un-utero#.UvpWE51d7mg).  Se mi sento di fare una critica, forse  MM scrive un po’ affrettatamente. E’ la prima volta che noto in un libro una palese e visibile contraddizione: a un certo punto ci si imbatte in lunga disquisizione sul fatto che uno dei due padri non prende mai l’aereo per insuperabili paure, e che questo è uno dei motivi per cui non sono andati in USA a cercare una madre biologica. La cosa quindi li obbliga  a lunghi, estenuanti viaggi avventurosi in auto attraverso tutta l’Europa. Dopo un po’ i due, senza l’aggiunta di un singolo commento (a meno che non mi sia perso qualcosa…), si imbarcano su un aereo… Dettagli, ovviamente.

In conclusione, un libro che si può leggere, una scrittura scorrevole, una vicenda che può interessare, anche se siamo lontani dalla potenza espressiva e dalla forza di un romanzo come La lunga attesa dell’angelo.

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La lunga attesa dell’angelo è un lungo racconto, fatto dal Tintoretto nelle due settimane precedenti la sua morte. Il pittore rivisita, in un lungo e complesso flashback, fatti, sensazioni, storie ed emozioni della sua vita. Narra soprattutto della sua passione divorante per la pittura, alla quale sacrifica tutto quel che ha attorno. Uomo di grandi impulsi e di grandi pensieri, oltre a dipingere coltiva due rapporti intensamente passionali. Il più totalizzante, con la sua prima figlia, illegittima, di nome Marietta ma chiamata Scintilla, il secondo con  Venezia. Marietta è un personaggio ambiguo, l’amore che la lega al padre è assoluto, al punto che diventa anche lei pittrice, più per stare vicina a lui che per vera vocazione. In un passaggio bellissimo Tintoretto  insegna a Marietta a dipingere al buio, perché,  le spiega, la verità e la bellezza non si possono copiare, ma occorre trovarle dentro di sé. Che state facendo?, chiede loro Faustina, la giovane moglie del pittore. Lezioni di pittura, risponde lui. Ma Marietta ribatte: Sogniamo con il pennello. Un altro momento intensissimo è quando durante un dialogo concitato Marietta dice al padre: non mi interessa il monumento che ti sei costruito, e che hai costruito a me. E’ falso, tutta menzogna. Tu sei lo stesso uomo di cinquant’anni fa, sei lo stesso corsaro, lo stesso ladro, lo stesso amante, lo stesso impostore, e sei anche un buon cristiano, un buon marito, un buon padre, sei degno di dipingere Dio. Non c’è contraddizione in questo né vergogna, c’è verità. Solo i grandi uomini hanno il coraggio della verità. E io ho sempre creduto che tu fossi un grande uomo. L’altra protagonista, come dicevo,  è Venezia, con la sua storia e le sue vicissitudini. Il suo popolo e i suoi nobili, la minaccia dell’invasione turca, la peste, gli incendi.  Emergono poi di tanto in tanto dallo sfondo  anche altri personaggi che popolano la famiglia del pittore, la moglie prima di tutto, presenza descritta sempre con grande tenerezza (e mia moglie, che non amava nemmeno le mie pitture, e le trovava sconcertanti e terribili e ne aveva paura, ha rispettato per anni la mia ricerca, il mio raccoglimento, la mia solitudine), poi i figli, tutti sacrificati alla personalità prorompente e alla passione divorante del padre; infine tutta una serie di personaggi minori, tra i quali vale la pena citare Tiziano, una presenza tanto ovvia quanto ingombrante nella Venezia di allora e nella vita di Tintoretto.

Il libro è dall’architettura complessa, con una scrittura non sempre facile ma che non perde mai lucidità, profondità, eleganza. E’ ricco di frasi bellissime, che rimangono come scolpite nella pagina, e che forse sono quanto di più bello ci offre questo romanzo. Che si chiude con una frase degna di concludere tutta l’epopea narrata: sono morto tra le braccia del mio figlio più imperfetto e più caro.

Mi ha impressionato la potenza della scrittura di MM, tanto che sono andato subito a leggermi altre due libri suoi, per cercare di capirla meglio, e soprattutto di vedere che cosa si possa scrivere prima e dopo un romanzo così unico. E non mi stupisce che sia uscita, dopo il romanzo, la sua biografia Jacomo Tintoretto & i suoi figli. Biografia di una famiglia veneziana, frutto di più di dieci anni di ricerche dedicate a questo pittore, definito ”il più terribile cervello che abbia mai avuto la pittura”. Non so se mi deciderò a leggere anche questo secondo libro. Da una parte c’è la curiosità di vedere riprese certe trame narrative, dall’altra c’è un po’ la paura di una sovraesposizione su questo personaggio. Certamente però MMM mi ha fatto venire la curiosità di dedicare un weekend ad andare a caccia dei quadri e delle opere di Jacopo Robusti, detto Tintoretto. Che vedrò con occhi ben diversi, dopo essermi perduto nelle pagine di questo libro.

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La storia raccontata in questo libro parla di un chirurgo, l’io narrante, che una mattina viene avvertito che una ragazza è stata portata d’urgenza all’ospedale per un incidente in motorino, e qualcuno sospetta che possa essere proprio sua figlia. E’ così infatti, e il padre, nell’angoscia dell’attesa di un’operazione al cervello di grande difficoltà, narra idealmente alla figlia una parte della sua vita. In particolare, parla della sua storia, per certi versi surreale, per altri vissuta con grande intensità e sincerità di sentimenti, con una ragazza di borgata, figlia e vittima di un ambiente assolutamente estraneo alle abitudini e alle frequentazione del protagonista. Si tratta di una storia tragica, e anche beffarda, nel momento in cui l’uomo si trova nella situazione in cui la moglie e la ragazza sono entrambe incinte. Non vado oltre nella trama, per non svelare troppo a chi volesse leggere il libro. Il linguaggio è molto duro, credo, mi hanno detto che è un po’ una caratteristica della Mazzantini. A volte dà fastidio, non sempre è necessario essere spietati con le parole. Anche per questo, non sono particolarmente curioso di andarmi a leggere qualche altro romanzo della stessa autrice. Ma non posso dire che questa storia non mi abbia affascinato, e che non abbia letto il libro con interesse.  E forse mi ha attirato il fatto che la vicenda del protagonista mi ricorda come può essere sempre possibile che persone che ci sono vicine, di cui crediamo di conoscere tutto o quasi, possono in realtà nascondere cose terribili, che albergano nel loro cuore o anche in un recesso nascosto delle loro vite.

In fondo

Ognuno sta solo sul cuor della terra

trafitto da un raggio di sole:

ed è subito sera. 

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Ecco quindi il mio pensiero del giorno: per la prima volta ho incontrato qualcuno che cerca le persone e che vede oltre. Può sembrare banale, eppure credo che sia profondo. Non vediamo mai al di là delle nostre certezze e, cosa ancora più grave, abbiamo rinunciato all’incontro, non facciamo che incontrare noi stessi in questi specchi perenni senza nemmeno riconoscerci. Se ci accorgessimo, se prendessimo coscienza del fatto che nell’altro guardiamo solo noi stessi, che siamo soli nel deserto, potremmo impazzire […], e quando le persone passano davanti alla portinaia non vedono nulla perché lì non si sono riflesse.

Io invece supplico il destino di darmi la possibilità di vedere al di là di me stessa e di incontrare qualcuno.

 

Come si fa a non amare un libro in cui leggiamo questa frase, oltre a tutto messa in bocca a una ragazzina? Io non posso e non voglio proprio. Certo, nell’Eleganza del riccio c’è  molto altro. Ma questo mi basta per essere contento di averlo letto. E sì che ne avevo sentito parlare, l’avevo visto recensito, ma non mi era capitato di prenderlo in mano. Quando l’ho fatto, ho cominciato a leggerlo, e la sua prosa elegante nonché la sua trama a suo modo molto originale mi hanno catturato senza nessuna difficoltà. L’autrice è docente di filosofia in Francia, e questo è il suo secondo libro. Ho tutte le intenzioni di leggere anche gli altri suoi. Da gustare, davvero. E sono curioso di andare a vedere il film.

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Non avrei letto questo libro che parla di tennis, sport che amo visceralmente, se non avessi letto in rete la solita bellissima  recensione di Viv (http://stravagaria.wordpress.com/2013/08/20/open/), che non è certo un’appassionata di sport. Ho fatto bene a leggerlo, e penso che tutti potrebbero apprezzare questo libro, a prescindere dal fatto di essere interessati al tennis.  Open mi ha indotto a pormi un paio di domande, che forse sono inutili perché non hanno una risposta precisa e non cambiano la sostanza delle cose: ma tant’è mi frullano nella mente. La prima: quanto c’è di vero, e quanto di inventato, o perlomeno di molto rielaborato, nel racconto di Agassi? Certo, episodi precisi sono certamente veri: da questo punto di vista gli americani sono maniacali, quindi nessuno spazio per la fantasia. Ma quando si parla di emozioni e ricordi? Quanto la descrizione minuziosa delle sensazioni provate il giorno di una finale importante di uno Slam sono davvero quello che lui ha provato quel giorno preciso?  Dicevo che la domanda è almeno in parte oziosa, perché ogni giorno che passa sono sempre più convinto che quelli che noi riteniamo ricordi precisi e puntuali di tante cose del nostro passato sono in realtà rielaborazioni più o meno inconsce della nostra mente, del nostro io profondo, di cui nulla sappiamo. In questo caso però, quando viene scritto un libro, con la chiara intenzione di farne un successo mondiale, può venire più di un sospetto che la descrizione di certe emozioni  sia anche in parte studiata a tavolino. L’unica risposta possibile, a mio avviso, è che in fondo tutto questo non interessa; Andre questo ci racconta, noi prendiamolo per quello che ci vuole raccontare, senza stare troppo ad arzigogolare se ci stia raccontando qualcosa in cui crede davvero. Anzi, il discorso potrebbe essere portato anche più avanti, in quanto persino i nostri ricordi del passato spesso vivono su rielaborazioni, fatte in perfetta buona fede, ma che probabilmente possono anche stravolgere fatti e sentimenti lontani. Per esempio questo a me capita spesso quando si ricorda qualcuno che non c’è più. Non solo sensazioni, persino episodi vengono in buona fede descritti molti diversamente da persone differenti. La seconda questione, per la quale alla fine la risposta è la stessa: chi ha scritto il libro? Avendo l’abitudine di pubblicare  ogni tanto qualcosa, cerco quando leggo di mettermi nei panni dello scrittore (e la cosa a volte è anche divertente). Leggendo Open ho provato a volte un po’ di disagio perché mi si poneva con forza la questione su chi stavo leggendo: chi era  colui o colei che aveva davvero scritto quelle parole? Per calmare la mia ansia di risposte me ne sono data una, che ritengo verosimile, ma che forse non ha grandi probabilità di essere vera… Dunque, certamente è stato fatto il lavoro, descritto da Agassi, di ore e ore di dialoghi tra lui e il premio Pulitzer Moehringer. I contenuti del libro nascono indubbiamente da qui.  Questi dialoghi sono stati certamente registrati, e qualcuno, né Agassi né  Moehringer (sempre secondo me), li ha trascritti su carta: il famoso ghost writer, più o meno. Dopo di che  Moehringer ci deve aver messo il suo tocco di Premio Pulitzer, e già che ci siamo possiamo ipotizzare che Agassi abbia dato una rilettura al tutto.

Ma tutto questo è arredamento,  perché in fondo quel che conta davvero è quel che si legge.

E, come dicevo, questo è un libro che val la pena leggere. Perché è ben scritto e perché parla di un personaggio  che anche fuori del tennis è certamente di spessore, nei suoi pregi e nei suoi difetti.  Insomma c’è sostanza dal punto di vista letterario, e c’è nella storia che viene raccontata. L’aspetto che forse mi ha meno convinto, ma che non mi ha stupito affatto di trovare, è l’analisi psicologica di tante situazioni e stati d’animo. L’odio di Andre per il tennis è spiegato benissimo e (forse troppo) diffusamente. Molto meno che cosa lo ha spinto a diventare il numero uno. I suoi fratelli/sorelle avevano lo stesso padre, non basta il talento per giustificare che solo lui sia diventato Agassi , ci deve essere stato dentro di lui qualcosa in più, che non ho trovato raccontato nel libro. E poi il rapporto con le donne della sua vita, specialmente le mogli. Elegante, mi pare, il modo in cui ha raccontato la storia con Brook Shields,  soprattutto la fine della storia è riportato senza cadute di stile; elegante il racconto del suo rapporto con la Streisand, un po’ troppo mieloso invece quel che dice di Steffy Graf, soprattutto all’inizio.

Per concludere, notevole e ammirevole quel che ha fatto e sta facendo per la  Andre Agassi College Preparatory Academy.

Non posso non aggiungere, però,  che preso da frenesia per biografie di sportivi, e probabilmente a causa di un’offerta di Amazon, mi sono anche letto “ Penso quindi gioco” di Andrea Pirlo, scritto con (da?)   Alessandro Alciato. Ecco,anche se AA mi sembra un bravo ragazzo e mi fa tenerezza quando parla infreddolito da qualche stadio per Sky, direi che il contributo più interessante del libro è aver saputo quante volte andava al gabinetto Pippo Inzaghi prima di una partita.

 

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Come mi ero ripromesso, ho ripreso in mano questo romanzo, curioso di vedere quanto le mie impressioni, a una seconda lettura, si discostassero da quelle, forti, provate durante la prima lettura. Credo che ogni libro, anzi ogni opera d’ingegno, sia un misto di ispirazione e di tecnica. Ci sono opere che sono tecnicamente belle, ma che non sembrano granché toccate dalla grazia dell’ispirazione, e altre che magari sono ispirate ma che sono realizzate con una tecnica che non è al livello delle intuizioni artistiche… e mi viene in mente che anche nei miei lavori scientifici succede lo stesso, ne ho scritto qualcuno impeccabile ma senza grandi contenuti, e qualcun altro  ricco di idee ma scritti piuttosto male…Rileggendo questa storia devo dire che continua a piacermi, a piacermi moltissimo. Per me è un gran bel libro, anche se non un capolavoro. Ma la seconda lettura direi che ha accentuato in me l’ammirazione per la costruzione tecnica del libro, e forse ridimensionato la parte creativa e emozionale. Del resto, la cosa non mi sorprende: rileggendo quel che ho scritto dopo la prima lettura, è evidente quanto fossi stato suggestionato dal racconto, che ho inconsciamente preso proprio come il racconto della vita di una persona che era lì con me… questo si capisce benissimo dal fatto che sono rimasto deluso dal fatto di aver scoperto che la donna che mi raccontava in realtà era un uomo. La seconda rilettura invece mi pare abbia in me evidenziato l’abilità  dell’autore di costruire una storia a tavolino, e di raccontarla molto bene. In conclusione, come già sospettavo, non penso proprio di essermi imbattuto in un capolavoro. Ma certamente ho letto un libro molto bello, che mi sentirei di consigliare a chiunque.

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Eccomi qui a smentire un post che ho messo a proposito di un librto letto qualche settimana fa. Il libro in questione rientra a piano titolo nel filone del giallo scandinavo, di cui ho appena finito di dire che mi sono un po’ stancato, perché forse dopo averne letti tanti sembrano un po’ troppo simili, almeno come ambientazione, paesaggi, e anche i nomi dei personaggi, così poco memorizzabili, giocano la loro parte. Ho letto questo per il motivo di sempre, la superofferta del giorno, rigorosamente in ebook. Poi quando me li trovo sull’Ipad prima o poi li leggo, anche se non proprio tutti…

La trama è semplice da descrivere. Una poliziotta decide di dedicare la sua attenzione all’omicidio di una ragazza, avvenuto 25 anni prima, e alla sparizione di sua figlia. Ci sono tutti gli ingredienti tipici, a cominciare, trattandosi di un poliziotto donna, di tutto un gruppo di persone nella polizia che, per ragioni varie, tenta di ostacolarla. L’aspetto interessante della vicenda è la questione tempo: quando l’investigatrice prende in mano il caso, mancano davvero pochi giorni alla caduta in prescrizione del reato. Si corre il grosso rischio, quindi, di accumulare un certo numero di indizi che potrebbero portare a individuare il presunto colpevole, che però potrebbero essere insufficienti a farlo condannare, avendo un vincolo temporale che non permette di approfondire i dettagli. Se non si arriva in tempo, il risultato sarebbe un totale fallimento, in quanto allo scadere del venticinquesimo anno in ogni caso le indagini andrebbero bloccate.

Il libro è ben scritto, si legge volentieri, e a me sembra che l’escamotage psicologico dell’indagine che ha un’ora esatta al termine della quale deve essere comunque conclusa, riesca a dare un ritmo serrato che rende la lettura interessante. Forse alcune parti della storia possono sembrare un po’poco plausibili, ma il resto fa sì che sia uno di quei casi in cui ci si può consolare dicendosi, come si usa, che la realtà a volte supera la fantasia.