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Oggi, giornata di sole, sembra difficile persino ricordare tutta la pioggia che è venuta giù in questi giorni a Milano e praticamente in tutto il Nord. Con tutto il corredo di danni e polemiche conseguenti. Però la Natura, oltre che violenta e vendicativa, sa essere anche particolarmente bella. Domenica mattina, quando finalmente il cielo ha lasciato intravvedere un po’ di sole, sono andato, come tanti del resto, a fare un giro a Parco Lambro. Difficile resistere alla voglia di fare qualche foto con il cellulare, anche se con le foto non ho nessuna abilità. Il risultato comunque sta in questa serie di immagini.

Nella prima si nota un cartello di divieto di sosta.  Almeno per le auto direi che in questo caso è inutile.

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Questo sotto è un campo di calcio. La foto non rende benissimo, ma le porte riflesse nell’acqua hanno davvero un gran fascino. La particolarità di questa foto è che rovesciandola ha un effetto curioso…

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Ed ecco la stessa foto capovolta!  Sembra un quadro dei macchiaioli.

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Qui le acque sembrano tranquille

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Qui invece si vede che la forza della corrente è  impressionante

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Un bel viale che di solito si percorre a piedi o di corsa…

beta

Bene, alcune foto sembrano venute abbastanza bene, altre molto meno. Le piccole non sono ingrandite perché sarebbero venute troppo sfocate. Al pc le vedo benissimo, e questo è un mistero per me, come lo è che importandole vengano rovesciate e quindi che le debba ruotare. Ma invece di pensare a questo (mezzo vuoto), penso al fatto che bene o male sono riuscito a creare una nuova pagina con foto, impresa quasi titanica per me (mezzo pieno)

Che Ottobre!

ott
2014
30

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Sono molto affezionato al mio blog. Però non si direbbe… Da un bel po’ di tempo non ho messo su più nulla. Eppure qualche idea ogni tanto mi viene… Però come sempre l’anno nuovo, che da buon accademico, quindi singolare per definizione, per me parte a Settembre, ha portato una serie di impegni al limite dell’asfissia. Anzi, l’espressione come sempre è impropria. Dovrei dire più ancora del solito. Non sto a farne l’elenco, cosa sempre spiacevole perché somiglia a una lamentela, e davvero io non intendo proprio lamentarmi per quella cosa che rimane la grande passione della mia vita. Però gestisco tre corsi in tre città diverse, e un dottorato, che in questo momento conta più di 50 persone, il che davvero mi tiene piuttosto occupato… Si è aggiunta, negli ultimi tempi, tutta una serie di fastidi fisici piuttosto fastidiosi, che hanno origine dalla colonna vertebrale ma si divertono a spaziare anche in zone limitrofe. Per cui stare al computer è sconsigliato, almeno quando si esce dallo studio… Credo che mi stia succedendo esattamente quello che una volta mi ha detto una persona, conosciuta da pochissimo, ma che ha saputo inquadrarmi perfettamente, almeno in quest’aspetto: ho capito, sei uno di quelli la cui mente si rifiuta di ascoltare il fisico che suggerisce di cominciare a rallentare… Insomma, questo post è praticamente senza un vero senso. Ma l’ho voluto scrivere lo stesso, perché siccome ho la dimostrazione matematica che almeno una persona ogni tanto ci va a curiosare, ebbene non mi sto rivolgendo all’insieme vuoto se dichiaro che non ho intenzione di far morire d’inedia questo mio refugium che condivido con pochi (ma buonissimi).

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Ieri (ho scritto questa nota qualche tempo fa, poi l’ho dimenticato causa preparativi per la partenza per le vacanze, ed oggi, altra giornata dal tempo deprimente, l’ho recuperato) finalmente sono finiti i mondiali di calcio. Ho visto un certo numero di partite: un tempo non ne perdevo neanche una, adesso invece se devo fare altro di una qualche importanza, perdo la partita, senza rimpianti. Ammetto che il calcio mi annoia sempre più, dal punto di vista logico lo trovo sempre meno attraente, da ultimo anche tutto quel che c’è attorno al calcio  mi infastidisce sempre più. A cominciare dall’idiozia generale di commentatori e pubblico, ben peggiore, in genere, che negli altri sport. Figurarsi che oggi i giornali argentini se la prendevano con l’arbitro, forse hanno guardato solo lui, dimenticandosi che cosa hanno combinato Higuain e Messi, per esempio. Ma oggi non voglio parlare di calcio, e del lato deteriore dello sport  vissuto passivamente, ma di qualcosa che invece dà lustro allo sport, al suo spettacolo e ai suoi significati. Parlo di basket, e più precisamente della serie finale per l’assegnazione dello scudetto italiano. Intanto, il basket è uno sport che ha risentito molto meno del calcio dell’enorme miglioramento atletico dei giocatori. Le partite continuano a essere belle, appassionanti, spettacolari. E questo già non è poco. Ma non è questo il punto più importante. Il basket è vissuto in maniera diversa, sul campo e sugli spalti (anche se i tifosi non sono aquile in nessuno sport, forse è proprio il concetto di tifo che corrompe la mente).

Dunque, un po’ di storia. Erano un sacco di anni, credo otto, che Siena vinceva a piene mani. L’impressione è che fosse una squadra forte, ogni tanto aiutata anche dall’esterno, e forse questo succede spesso, con le squadre forti. Di più. C’è in corso un inchiesta perché sembra che Siena si sia resa più forte ancora, violando le regole in maniera pesantissima. In particolare, pagando profumatamente, in nero e all’estero, un bel po’ di giocatori. Non basta, chi ha organizzato tutto questo è anche accusato di aver fatto creste e crestone su queste operazioni, per arricchimento puramente personale. C’è quindi il rischio che questi scudetti possano essere cancellati con un tratti di penna, o meglio con una sentenza di un qualche tribunale sportivo. E che il suo dirigente principale finisca pure in galera. Ma c’è di più. La società basket, forse risentendo di tutte le peripezie della Banca Montepaschi, è fallita. Il suo campionato si è concluso con un manipolo di giocatori stranieri che già sapevano  che la loro esperienza a Siena era conclusa, con qualche italiano a fine carriera, con un allenatore che sapeva di allenare una squadra che stava per sparire, e di farlo per un anno solo. Di fronte a Siena la EA7 Milano, squadra destinata (speriamo con altra etica) a prendere il posto di Siena come corazzata del campionato, in virtù di un proprietario di enormi risorse finanziarie, e con dietro una città come Milano che, almeno se le cose vanno, riempie i palazzetti come nemmeno gli stadi di calcio di molte squadre di Serie A. Insomma Milano a confronto di Cantù, Armani a confronto dei Cremascoli … non esattamente le stesse potenzialità.

Ci si poteva aspettare una serie (nel basket vince il campionato la prima squadra che vince quattro incontri) già segnata in partenza. Ebbene non è stato così. Non tutte le partite sono state belle. In certi momenti si è assistito a una sagra di errori anche un po’ stucchevoli. Tecnicamente, gli amanti NBA avrebbero spesso potuto storcere il naso. Eppure, che serie! Basta ricordare l’inizio, 2 a 0 per Milano e conti chiusi secondo tanti. E invece Siena vince le sue due in casa, e poi sbanca Milano! Si arriva sul 3 a 2 con partita a Siena. In un certo senso l’ultima spiaggia per entrambe, con la differenza che una ha un futuro, l’altra no. Una partita incredibilmente avvincente, Milano sempre avanti, ma di poco, Siena che la raggiunge, e in un crescendo di tensione, si arriva agli ultimi secondi… Siena avanti di due punti, palla a Milano. Praticamente allo scadere Jarrell tira e insacca da tre! Si va a gara sette. Il Palazzo del basket di Siena è impressionante. I giocatori di Milano tutti attorno a Jarrell, quelli di Siena annichiliti. Il pubblico che applaude i suoi giocatori. Molti volti sono rigati di lacrime, e queste sono lacrime vere e da rispettare, perché Siena è stata un sogno per tanti anni, e quei volti sanno che il loro sogno è finito per sempre.

Però c’è gara sette da giocare, e anche questa è un vero, autentico, spettacolo di sport. Non importa se chi gioca sta giocando bene, non importa se si sbaglia troppo, importa che ci sono due squadre vere che si danno battaglia. Che vogliono prevalere, che accettano il combattimento, che si rispettano. Milano sempre in vantaggio, anche se non di molto, Siena che non molla mai. Si arriva all’inizio del quarto tempo, Siena è persino  riuscita a mettere la testa avanti. Ma non basta, la squadra emergente ha qualche briciolo di energia in più, ha la forza del futuro, Siena cede quasi di schianto, il punteggio alla fine è persino punitivo per lei. Ma gli avversari per rispetto hanno giocato fino all’ultimo secondo.

La partita è finita. Milano fa festa, il parquet è invaso dai tifosi. L’allenatore di Milano è sorridente, in maniera composta. Il suo cuore non può godere pienamente del successo, comunque inseguito per una stagione. Lui era a Siena in tutti gli scudetti precedenti. L’immagine di chiusura è bellissima: un tifoso con maglietta Armani che si avvicina al capitano di Siena, Thomas Ress, e gli dà come una carezza di stima e di affetto. E lui che ringrazia con lo sguardo.

Tengo per una squadra povera. Ho sportivamente odiato Siena tutti questi anni. Ma ho voluto testimoniare il mio rispetto per la squadra di quest’anno, un team vero, un gruppo di persone unite attorno a un progetto, e che ha dato il meglio di sé fino all’ultimo, senza chiedersi neppure un attimo che cosa sarebbe stato domani.

Un ebook da leggere

lug
2014
10

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 cover

Non si tratta dei soliti commenti su un romanzo finito di leggere da poco. No, stavolta parlo di un ebook (che se non ho capito male tale rimarrà, non sarà cioè pubblicato in versione cartacea) che va certamente letto da tutti coloro che hanno sentito parlare della vicenda qui raccontata. Parlo di Acqua sporca, scritto da Antonino Michienzi e Roberta Villa, per Zadig Editore. Il libro narra di Stamina, e di tutto (o quasi) quel che c’è dietro questa storia, per certi versi assurda, in qualche caso tragica, certamente complessa.

La prima cosa che mi preme sottolineare è che ho trovato molto apprezzabile lo stile con cui tutta la vicenda è narrata: una storia, una storia vera e documentata, ma una storia. Questo, secondo me, aiuta moltissimo chi vuol capire ma sarebbe forse un po’ timoroso di affrontare un libro di pura saggistica. Però sono altri i motivi che rendono questo libro molto prezioso. Della vicenda di Stamina ne abbiamo sentito parlare parecchio, a volte a proposito, molto più spesso a sproposito, ma molti aspetti della vicenda, secondo me, non erano noti ad un pubblico che, pur essendo interessato a queste tematiche, non è addentro alle vicende come un esperto. Ecco i punti salienti che il libro mi ha spiegato, e dei quali davvero sapevo poco o nulla.

Il primo punto fondamentale riguarda il perché tutto questo è successo e sta succedendo proprio nel settore nel quale si è mossa Stamina. In parole povere e brevissime (tanto dovreste leggere l’ebook) ho scoperto che dietro il problema delle staminali esiste una questione gigantesca e poco nota, almeno ai non addetti. Si tratta del fatto di stabilire se una terapia a base di infusione di staminali debba essere considerata come qualcosa di assimilabile all’assunzione di un farmaco, oppure no. La differenza è abissale, perché se si considera la procedura simile all’assunzione di un farmaco, allora i passi necessari per il  riconoscimento della sua validità terapeutica (e quindi della sua  possibile utilizzazione in condizioni accettabili) cambiano enormemente, perché richiedono passaggi lunghi, costosi, complicati, che l’assimilazione a un trapianto, ad esempio, comporterebbe solo in minima parte. Si può capire quindi gli interessi stramiliardari che decisioni in questo campo possono muovere, e di conseguenza tutte le guerre che si scatenano attorno a questioni come queste.

Ma non tutto si può ricondurre al denaro, nella vicenda di stamina. Quel che mi ha sorpreso è scoprire che un numero non trascurabile degli attori coinvolti nella faccenda avevano e hanno un interesse di salute personale legato al mondo delle staminali: lo stesso Vannoni ha sperimentato la cura su di sé, prima di lanciarsi nell’avventura di diventare lui stesso un operatore di staminali, quindi un dispensatore di cure, anche se tutto il libro dimostra che di cure non si può parlare in questo caso. La dimensione più umana (impressionante il racconto di come è partita la sperimentazione a Brescia, del perché possa aver attecchito lì l’idea di una cura totalmente al di fuori di ogni (ragionevole) protocollo) di tutta la faccenda mi era totalmente sconosciuta, e getta una luce un po’ diversa dalle motivazioni prime che uno può immaginare stiano dietro una faccenda come questa.

Mi sembra che il libro tocchi tutti gli aspetti salienti della vicenda, e li presenti con obbiettività e competenza. A un certo punto della lettura ho pensato che forse gli autori avevano tenuto la mano un po’ leggera rispetto a responsabilità abbastanza evidenti di persone, nonché organismi ed enti preposti alle decisioni. Però continuando mi sono reso conto che la prima impressione non era del tutto corretta, certe frasi qui e là a leggerle bene nascondono un (sacrosanto) giudizio piuttosto duro (una ricetta che si esprimesse così non troverebbe spazio nemmeno in un libro di pasticceria). Mi sarei aspettato, forse, qualche commento in più sulle responsabilità ministeriali e sulla ridda di sentenze che hanno accompagnato la vicenda, ma a posteriori credo che la scelta di non avventurarsi troppo in questo terreno minato sia stata molto ragionevole.

La conclusione per me è che questo libro ha avuto l’immenso pregio di farmi capire che dietro Stamina non c’è solo una vicenda assurda, senza senso, inspiegabile. Assurde semmai sono le Iene (e banditesche), con la loro disinformazione. Stamina ha dietro una faccenda complessa, che non nasce dal nulla, e il libro ne racconta la storia in maniera illuminante, perché fa capire, e lo fa benissimo, come tutto questo possa succedere.

L’ebook mi ha chiarito che dietro al problema dell’uso delle staminali, al di là dei ciarlatani, c’è il fatto reale che riconoscere una cura come farmacologica comporta burocrazia, attese, tempi lunghi, grandi quantità di denaro da investire; esiste quindi un problema reale, ed occorre lavorare continuamente per aggiornare le procedure; esiste un delicato equilibrio da trovare tra l’urgenza di chi soffre e la necessità di assicurare una cura certificata. Insomma, la tutela del malato è sempre al primo posto, il diritto a cure certificate è indispensabile, ma forse certe procedure vanno ripensate, anche in funzione dei problemi specifici che l’uso delle staminali sta ponendo. E che sono problemi reali.

E’ evidente che gli autori sono schierati, tra l’altro a favore dell’unica posizione possibile in un ambito che pur dovendo tenere conto di mille fattori, prima di tutto la disperazione della gente, necessita di un approccio scientifico ai problemi. Ma i loro commenti sono approntati a un grande equilibrio, e il loro sforzo di far capire che dietro questa vicenda non ci sono solo pazzi o banditi, ma problemi giganteschi, ha avuto a mio avviso pienamente successo.

Infine, come ho già detto, la storia è raccontata molto bene, il che non guasta mai.

Alicante

giu
2014
27

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Martedì scorso ad Alicante era la festa di San Juan, patrono della città. Niente di speciale, si potrebbe osservare, nello stesso giorno per esempio anche a Genova si festeggiava il patrono, San Giovanni, appunto. Eh no, non è la stessa cosa… Per fare capire perché, basta forse dare un’occhiata a queste foto, prese col mio Ipad.

Uno dei tanti monumenti in giro per la città

Uno dei tanti monumenti in giro per la città

 

 

 

 

 

 

 

Non chiedetemi che cosa voglia rappresentare questo oggetto un po’ stravagante: non lo so. Ha significati allegorici, che non conosco.  Nella prossima già si riconosce qualcuno…

 

E' molto amato, non solo in Italia e in America del Sud

E’ molto amato, non solo in Italia e in America del Sud

 

 

 

 

 

 

 

A volte, anzi il più delle volte, sono ironici, anche ferocemente:

 

Il re e la regina (ex, precisamente). Difficile credere che le zanne dell'elefante siano finite in quella posizione per caso...

Il re e la regina (ex, a essere precisi). Difficile credere che le zanne dell’elefante siano finite in quella posizione per caso…

 

 

 

 

 

 

 

 

Il presidente della Catalogna, che si rivolge a Madrid...

Il presidente della Catalogna, che si rivolge a Madrid…

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Poi ci sono quelli che sicuramente piacciono ai bambini:

Personaggi fiabeschi...

Personaggi fiabeschi…

 

 

 

 

 

 

 

Mi rendo conto che le foto danno poco l’idea della dimensione di questi monumenti, alcuni dei quali sono davvero enormi. A proposito, chi si immagina di che materiale sono fatti? Io no di certo, ma so che si tratta comunque di materiale altamente infiammabile. Il motivo  è molto semplice. Tutte queste costruzioni sono state incendiate la sera del 24! La festa consiste proprio in questo: avere i monumenti sparsi per la città il week end precedente, per poter andare in giro a osservarli, e poi divertirsi a vederli divorati dalle fiamme il giorno della festa. Tra l’altro, chi mi ha accompagnato nel giro notturno, mi ha assicurato che questi sono niente rispetto a quanto si può ammirare a Valencia…

In effetti ero arrivato sabato 14 Giugno a Alicante, e già quella sera, che ho passeggiato un poco in centro in attesa della mezzanotte (ora di Italia Inghilterra ai mondiali…) mi ero incuriosito non poco a vedere parecchie ragazze, e qualche signora, vestite in maniera evidentemente speciale, in particolare con gonne molto larghe, tipo queste (ma non proprio così, questi sono vestiti, lì mi ricordo soprattutto gonne)

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Insomma, i preparativi per la festa, curiosamente per me, erano già in atto dieci giorni prima…

Tutto questo  è interessante nota di colore, ma il soggiorno ad Alicante mi ha detto molto di più, e mi ha un po’ costretto a riflettere sul fatto che le loro abitudini sono abbastanza diverse dalle nostre, almeno se paragonate a Milano… Ovvia la considerazione che il clima,  la presenza del mare, la dimensione della città pesano non poco sulle abitudini, sui modi di vivere, direi anche sulle relazioni sociali. Il clima, tipicamente del sud, aiuta le relazioni sociali spontanee, quelle leggere e genuine. Il motivo è semplice: si vive molto più spesso fuori casa che non in casa… ricordo una scena bellissima cui ho assistito casualmente a Messina: tornando in auto dall’Università verso il centro mi hanno fatto passare per un viale trafficatissimo che dava letteralmente sulla stretta spiaggia. A un certo punto ho notato con enorme sorpresa un tavolino sul marciapiede, e quattro signore probabilmente ultra ottantenni che tranquillamente bevevano il thè e giocavano a carte. Ma poi mi sono detto che la mia sorpresa non era giustificata, è naturale che in un clima così caldo e con un panorama così bello si stia sempre fuori, e fuori si incontrano tante persone. Questo ci dà abitudini e condiziona un po’ le nostre vite; è ad Alicante che ho ricordato e capito fino in fondo le parole di Resia, una collega di Napoli che ho incontrato a qualche congresso, e che un’auto assassina si è portata via un sabato mattina mentre andava in bicicletta per una strada di campagna. Una volta mi ha raccontato che quando non si sentiva bene, che quando la malinconia la prendeva forte, allora scendeva in mezzo alla gente per Napoli, e tutto le tristezze  si allontanavano. Perché anche io l’ultima sera, passeggiando in una città strapiena di gente allegra e vociante, ho sentito allontanarsi malinconie e solitudini…

E poi il mare. Sono nato vicino al mare, ho vissuto accanto al mare per trent’anni, sono sempre andato al mare, sono stato anche un sub piuttosto bravo. La vita mi ha portate da un’altra parte, e sono convinto che dal punto di vista del mio lavoro essere venuto in zona Milano sia stata una grande fortuna. Ho bisogno di spazi, sono irrequieto, a Milano gravitano diverse Università, e questo mi ha dato parecchio, non foss’altro perché ho avuto poco tempo per annoiarmi. Pero tutto ha dei costi. Passeggiando di fronte a panorami come questo:

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ho capito che forse la mia vita, il mio stesso carattere sarebbero stati un po’ diversi, persino il mio lavoro non sarebbe stato lo stesso. Perché finire alle sei di lavorare, prendere l’auto e tuffarsi con pinne e maschera in acque come queste, sarebbe stata una tentazione irresistibile, e poi perché mai si dovrebbe resistere a tentazioni come questa?

E’ stata una sola settimana di soggiorno in questa città, ma una settimana densa di sensazioni, pensieri, emozioni.

Muchas gracias, Alacant!

 

Guerre di religione

mag
2014
20

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Oggi voglio parlare del fatto che a me sembra che il fanatismo, il totale disinteresse per provare a capire gli argomenti degli altri, il fatto di non accettare mai le decisioni della maggioranza non tanto nella convinzione di essere nel giusto, quanto nella certezza di star combattendo una guerra di religione, stiano dilagando sempre più, anche tra ambienti dove, uno si immagina, le persone dovrebbero essere portate a una maggiore riflessione. A volte mi chiedo se non sia, forse, più un modo di esprimersi che non una reale chiusura mentale: molte di queste forme di dogmatismo, almeno alcune di quelle che ho in testa, si esprimono con mezzi come Internet che tendono a farci esporre concetti con una semplificazione, e quindi con una radicalizzazione, estrema. Ma temo non sia così. Vorrei fare tre esempi, due dei quali solo accennati, solo perché mi hanno colpito, sull’altro invece mi dilungo un po’ di più, perché mi interessa più personalmente.

Faccio la breve premessa che oggi siamo sempre di più di fronte a problematiche complesse, che riguardano questioni spesso molto sofisticate, per cui è evidentemente difficile che una qualunque decisione presa porti solo vantaggi, sia valida per sempre, non necessiti continui adattamenti. Questo dovrebbe suggerire, secondo me, un atteggiamento più illuminato, più incline all’accettazione delle decisioni quando non ci trovano d’accordo, e non il contrario.

Il primo esempio è l’annosa questione della TAV. Intanto, mi sembra che dopo decine e decine di giudizi, appelli, processi, sentenze, una volta presa una decisione, questa non dovrebbe essere più messa in discussione. Capisco che in realtà la questione TAV è diventata per alcuni una buona ragione per sfogare istinti anarcoidi o antisistema, per altri per sfogare il loro mai spento pesudointellettualismo da strapazzo (e questi  sono davvero i più odiosi di tutti), ma perché proprio la TAV è diventata un simbolo? Non capisco bene quel che è legato all’idea di trasporto. Ho fatto l’esperienza della galleria del monte Barro, anni e anni per farla, corsi e ricorsi, guerre di religione…ora che c’è la mia impressione è che il monte Barro sia molto più godibile di prima; le auto scorrono veloci dove un tempo si facevano code kilometriche con miasmi conseguenti, e non sto affatto dicendo che costruire una nuova strada, una nuova galleria, un nuovo ponte, un’altra strada siano SEMPRE buone idee (magari un giorno racconto il paradosso di Braess, un esempio famoso in teoria dei giochi dove si vede che fare una nuova strada può portare a un aumento dei tempi di percorrenza, inoltre è ovvio che nuovi mezzi di comunicazione incentivano uno spostarsi a volte poco sensato…), voglio solo dire che, come dovrebbe essere ovvio, si tratta di fare un bilancio onesto e senza pregiudizi tra vantaggi e svantaggi.

Il secondo esempio è relativo a una questione discussa su Facebook in questi giorni: una partita organizzata per beneficenza da una onlus che si occupa di una malattia molto rara che colpisce i bambini, è stata annullata per le minacce degli animalisti, che avevano minacciato azioni violente in quanto una delle squadre ha come sponsor una società che fa sperimentazione su animali. Ora questo a me sembra inaccettabile. La sperimentazione animale è un tema delicato, sul quale avere certezze dogmatiche è del tutto fuori luogo. Sono a favore di chi pretende rigorosi controlli, sono per chi combatte dure battaglie perché la sperimentazione animale sia sostituita da altro ogni volta che sia possibile, sarei felice se chiudessero quel lo zoo dove hanno ammazzato (in pubblico!) una giovane giraffa per questioni che mi interessano poco, però allo stesso tempo le persone che sono disposte a calpestare propri simili in difesa dei ratti da laboratorio mi fanno davvero intellettualmente paura. A me sembra che più che amore per gli animali questo sia odio per i propri simili (escluso qualche privilegiato). E credo che tutti quelli che non la pensano come questi fanatici dovrebbero ribellarsi di fronte a queste prepotenze.

E vengo alla questione che mi tocca più da vicino. Un po’ di tempo fa il Senato Accademico del Politecnico di Milano ha deciso che i corsi delle lauree magistrali sarebbero, da un certo momento in poi, stati erogati esclusivamente in lingua inglese. Come spesso succede, i vari passi della decisone sono passati senza apparente reazioni, ma quando si è arrivati alla decisione finale si è scatenata la bagarre. Si è anche arrivati a un ricorso al TAR (c’è sempre un TAR da qualche parte nella nostra vita…), che ha per il momento sospeso la decisione del Politecnico, con conseguente appello al Consiglio di Stato, che ovviamente ha chiesto supplementi di informazione: come è quella famosa? Mentre a Roma si discute, Sagunto brucia…Dum Romae consulitur, Saguntum expugnatur….

Vorrei chiarire la mia posizione personale su questo punto. Ancora una volta, vedo pregi e difetti in questa decisione. Aprirsi veramente agli studenti internazionali secondo me non è più nemmeno una scelta, è una necessità. Ho visto da tanti anni in Francia questo fenomeno, e in certi momenti alcune Università sono state salvate dalla presenza di studenti stranieri. E poi sono evidenti i vantaggi di formare persone specializzate da noi: spesso quando tornano nei loro paesi  mantengono rapporti di lavoro con l’Italia. Tuttavia ho avuto qualche dubbio sulla decisione perché mi è parsa troppo radicale. Sono convinto che la scelta dell’Inglese sia naturale per certi corsi di studio, meno per altri, sono convinto che qualche percorso in Italiano avrebbe salvaguardato  studenti un po’ timorosi di passare a studiare in una lingua straniera, anche se il loro numero è per fortuna in drastica diminuzione. Comunque la decisione è stata presa dopo tante discussioni, ed è evidente che si tratta di una scelta strategica che va valutata nel lungo periodo, il che tra l’altro inficia molte delle argomentazioni che ho sentito, sia favorevoli sia contrarie, basate su considerazioni che hanno senso solo sul periodo molto breve.

La maggioranza dell’Ateneo sembra aver accettato la decisione presa dai vertici, alcuni forse l’hanno subita ma accettata, poi c’è chi invece della lotta all’Inglese obbligatorio nelle Lauree Magistrali ne ha fatto una guerra di religione. Già a me le guerre non piacciono, quelle di religione ancora meno, quello che mi infastidisce enormemente in questa è il fatto che chi la porta avanti si è autoproclamato il difensore della lingua italiana. Io ritengo che assimilare i favorevoli alla decisione a quanti disprezzano o non vogliono difendere la lingua italiana sia francamente offensivo.

Sono colpito dal fatto che nella mente di queste persone non passi nemmeno un attimo l’idea che si possa avere una visione diversa delle cose: c’è chi come me pensa che le nozioni che eroghi a ragazzi di 22-24 siano ormai soprattutto avanzate, tecniche, non più così formative. Ho fatto un lavoretto per una banca, in un dipartimento dove lavora una mia ex-laureanda, e ci siamo trasmessi tutti i documenti in Inglese, perché così era più comodo. La formazione vera si fa prima… Ho letto articoli (ogni singolo articolo che (s)parlava della decisone del Politecnico ci veniva mandato nella lista docenti) scritti in un italiano vergognoso, questo sì che mi dà fastidio… sono pronto, se questi signori volessero fare davvero qualcosa di utile, a rumoreggiare e spernacchiare ogni volta che qualcuno, forse per apparire à la page, usa termini inglesi ridicoli. Detesto l’uso della parola “endorsement” e come questa cento altre che potrebbero essere tranquillamente tradotte ma così non fa figo…ecco su questo sono pronto a far battaglie. Come avrei apprezzato che quelli così contrari, una volta che la decisone è passata, avessero fatto una battaglia per organizzare all’interno dell’Ateneo delle attività di valorizzazione della lingua italiana; sono convinto che si sarebbero trovate un sacco di persone  come me al loro fianco…ma forse una guerra ideologica fa più comodo.

La lingua si può difendere in mille modi, esistono tante iniziative possibili per salvaguardare l’italiano. Mi piacerebbe parlare in Ateneo di che cosa possiamo fare, con la presenza di tanti studenti stranieri, per diffondere anche la nostra lingua. E queste iniziative potrebbero coinvolgere, ovviamente, anche gli studenti italiani. Così si fa un servizio alla lingua italiana e alla comunità alla quale si appartiene, anche quando vengono prese decisioni che non ci trovano d’accordo.

Amo la lingua italiana. Quest’anno ho tenuto un corso di teoria dei giochi e uno di game theory: sono sostanzialmente indifferente sulla lingua che uso (ammetto che in matematica questo è molto più facile che in altre discipline, comunque). Non mi importa nulla che l’anno prossimo saranno entrambi in Inglese, mi importa lavorare in un ambiente che cerca di essere eccellente, che vuole crescere, e dove tutti remano nella stessa direzione.

 

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 Il 10 Marzo ho fatto una conferenza a Palazzo Ducale, la prima di un ciclo organizzato da Giovanni Filocamo e dal titolo Non solo numeri, con bellissimo sottotitolo Matematica a Palazzo. Per chi fosse interessato, ecco il link al programma…

http://www.palazzoducale.genova.it/naviga.asp?pagina=87050

Di solito metto le mie presentazioni nelle sezioni di scienza o di divulgazione, ma questa volta ho deciso di metterla in un articolo nella home. Il perché è molto semplice. Una conferenza a Genova per me ha sempre un sapore diverso, figuriamoci poi se la conferenza è ospitata a Palazzo Ducale! Perché è così diversa, al di la della semplice considerazione che sono genovese? Intanto, tornare nella propria città d’origine non è esattamente un’emozione qualunque. Le origini contano, eccome. Mi ricordo benissimo ancora adesso la sensazione di quando, venticinque anni fa, sono tornato dalla California, dove speravo di restare almeno un anno in più. Nei momenti in cui non era chiaro se sarei potuto rimanere, pensavo con forza che se fossi tornato allora mi sarebbe piaciuto tornare a Genova. In realtà, quando sono tornato, ben lungi da me la sola ipotesi di trasferirmi di nuovo in Liguria, anche se avessi potuto! Questo per dire che so che a volte ci culliamo in sensazioni e pensieri che non reggono alla prova dei fatti: per me il lavoro è molto importante e non avevo dubbi allora, una volta tornato, dove volevo stare…però Genova era nel cuore, lo è ancora oggi, anzi oggi più di allora; tornare in città non significa solo incontrare i parenti e gli affetti, rivedere qualche persona che non vedevo da tempo, incontrare uno dei figli (che sono felicissimo abbia fatto il mio percorso inverso…), significa fare dei dolci conti con quello che ero più di trent’anni fa.

Lunedì dunque il mio appuntamento con Palazzo Ducale è stato emotivamente importante. Tra le altre cose, vorrei ringraziare Giovanni Filocamo, non solo per avere pensato a me come a uno degli oratori della sua serie di conferenze, ma anche di avermi chiesto di essere quello che avrebbe aperto il ciclo…l’ho sentito un onore tale che non ho avuto dubbi a rinviare di un paio di giorni la mia partenza per Parigi, città d’elezione degli ultimissimi tempi (ha in effetti rubato un po’ il posto a Barcellona, insomma in questo periodo meglio Ibra di Messi!).

Una conferenza come quella di Palazzo Ducale, pur essendo ormai avvezzo a parlare in pubblico, e sapendo che di solito lo so fare abbastanza bene, è sempre molto difficile da immaginare. Oramai parlare a un congresso per me è un’abitudine. Certo, prima di cominciare c’è un po’ di tensione, a volte ho paura di parlare di cose poco interessanti, ma in fondo il compito non è difficile: più il tema è ristretto, più il pubblico è specializzato, più le cose sono semplici. E poi, sinceramente, i matematici molto spesso sono dei disastri a parlare, certo io sono più di quelli che si ascoltano volentieri, quindi in genere sono abbastanza tranquillo: tra chi mi ascolta sicuramente ci saranno alcuni che pensano stia raccontando stupidaggini, ma sono convinto che  pensino anche che non è così spiacevole ascoltarmi (e poi le tecniche per far finta di ascoltare e fare altro sono collaudate tra noi).  Una conferenza a un pubblico eterogeneo è molto più difficile… chi avrei trovato a Palazzo Ducale? Che taglio avrei dovuto dare al mio intervento? C’è sempre il rischio di dividere l’uditorio in due parti: che pensa che stai dicendo banalità e chi invece pensa di non star capendo nulla…

Questo succede dappertutto, mica solo a Palazzo Ducale! Però a Palazzo ti viene incontro una persona, e tu, agitatissimo perché ti hanno chiamato a casa per dirti di arrivare prima che c’è RAI EDU che registra e vuole intervistarti, e questo naturalmente manda a pallino la tempistica, dicevo tu ti dici ‘quella persona lì so benissimo che la conosco, ma sto per fare una pessima figura perché non ricordo chi è’, per poi scoprire dopo un secondo che è Marco, un tuo compagno di scuola che non vedi da 15 anni, e che 15 anni fa hai visto una volta  alla cena dei trent’anni della maturità, dopo trent’anni appunto che non vedevi più… però Marco era una presenza forte in quei giorni, e tante cose si riaffacciano alla mente…

Oppure gli zii e la mamma, che non mancano mai a uno di questi appuntamenti, e certo loro vengono per amore, e capisci una volta di più che quello che ha radici negli affetti dell’infanzia poi rimane per sempre. O gli amici di tua sorella, che chissà se vengono per salutarti, o per fare piacere a lei, che organizza sempre cene piacevolissime, cui invita anche i sampdoriani, tanto per dire…o qualche cugino di mia madre, esempio di un attaccamento incredibile alla nostra famiglia, per loro così importante.

Poi Giovanni mi presenta, e allora tutto svanisce: ci sono più solo io, insieme con la mia passione per quel che racconto, e che non mi stancherò mai di raccontare, purché ci sia almeno una persona che ha voglia di sentire quelle cose bellissime che ho imparato negli anni passati a fare l’unico mestiere che avrei potuto fare, perché sono nato per quello.

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Il voto a scuola

feb
2014
28

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Ho recentemente  letto su Facebook l’intervento di un professore di scuola che emanava un grido di dolore per l’obbligo che ha l’insegnante di dover giudicare con un voto i propri alunni. Come spesso succede su Facebook i commenti erano tutti di plauso per il post e per il grido di dolore. Con una eccezione, il mio post, in cui chiedevo se ero solo io a dissentire, oppure se ero l’unico a dirlo. Sono molto maldestro nell’utilizzare il computer, e ancor più Facebook, ma il fatto che poi il mio commento dopo un po’ non comparisse (non ho controllato se subito c’era) mi ha fatto sospettare davvero una forma di censura più che l’ennesimo pasticcio. Questo mi ha fatto arrabbiare e venire la voglia di scrivere qualche mia idea su questa storia dei voti, e cercherò di essere il meno acido possibile. Eh sì perché di questo buonismo, francamente melenso a essere gentili, o alquanto sospetto a pensare male, non se ne può proprio più. Gli argomenti della professoressa, angosciata di dover etichettare con un voto i suoi alunni, erano quelli che si possono immaginare. Prima di tutto il fatto che il voto genera ansia, in chi lo deve dare e in chi lo riceve, e poi che crea situazioni di competitività, invidie e gelosie, l’ossessione del confronto, ecc ecc. Ora io vorrei chiarire che la mania di quantificare tutto, di assegnare un numero a tutto ciò che si dice e si fa, a me proprio non piace. Ci vuole ragionevolezza. Ma  credo anche che, fino a prova contraria, si vada  a scuola per imparare il sapere e per attrezzarsi ad affrontare la vita. Non è l’unica istituzione a dover fare questo, ma ha un suo ruolo importante.

La vita non è la pubblicità del Mulino Bianco. Nella vita dobbiamo tutti affrontare giudizi, dobbiamo confrontarci con gli altri, siamo messi in classifica, siamo giudicati e dobbiamo giudicare. Nella vita ci potrà capitare di dover prendere decisioni drammatiche, o di essere oggetto di decisioni drammatiche. Sia ben chiaro, non voglio sostenere che siccome la vita è dura allora occorre fin da subito cazziare i ragazzini per far sì che siano ben attrezzati. Chi mi conosce sa benissimo che non sono così, che cerco di evitare attriti e competizioni ogni volta che mi sembra possibile, che sono molto competitivo solo in un campo da tennis, che mi sono scelto un lavoro in cui si compete più con se stessi che con gli altri (anche se la carriera accademica per certi versi competitiva lo è). Però credo che sia dovere preciso di un insegnante anche saper indirizzare e giudicare i propri alunni, premiare chi merita e richiamare chi non lo merita. Credo che sia importante saper anche, in certe circostanze almeno, classificare le persone secondo i loro meriti. Cercando di sdrammatizzare eventualmente le situazioni quando possibile: recentemente per esempio dopo un esame con 80 persone ho detto che non potevo essere certo che tutti i 28 fossero un po’ meno bravi di tutti i 29 i quali, a loro volta, forse non erano un po’ peggio di qualche 30. Ma ho aggiunto che questi voti sono comunque ottimi, che  ognuno di noi, se appena è sincero con se stesso, sa che una volta è stato valutato un po’ stretto ma un’altra ha avuto un voto generoso…

Insomma valutare, dare voti, è un obbligo per noi, che va assolto con serenità, ed un diritto per gli alunni. Il problema poi mica si ferma alla scuola, proprio no. Questo egoistico buonismo a me sembra molto diffuso anche tra i genitori, che troppo spesso non hanno il coraggio di educare con energia, che trovano più comodo andare a scuola a protestare per un voto dato al figlio, a giustificare ogni loro comportamento, a chiedere comprensione per le difficoltà che si trovano ad affrontare, e che scoprono più gratificante allevare adolescenti che non crescono mai, perché non si sentono mai dire di no, piuttosto che attrezzarli già da giovani a prendere qualche responsabilità, e a confrontarsi con insuccessi e, a volte, pure con qualche ingiustizia.

Tanto è la vita a essere ingiusta. Con coloro ai quali voglio bene,  cerco di essere presente e comprensivo nei momenti di difficoltà, ma mettendo in evidenza il fatto che, a volte, occorre accettare anche cose che non ci piacciono, o accettare una sconfitta anche se pensiamo di non averla meritata.

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Queste mie considerazioni nascono da due post che ho trovato su Facebook. Il primo si occupava del movimento  5 stelle, e delle sue procedure di “democrazia diretta”. Il secondo invece dell’essenza della nostra vita sociale e politica. In particolare, il primo analizza le poco trasparenti procedure messe in atto da Casaleggio e Grillo, il secondo pone l’accento sul fatto che ogni singolo meccanismo in questo paese si basa sulla sfiducia di tutti contro tutti, a partire dal fatto che c’è bisogno di due camere legislative, perché l’una possa controllare l’altra. Le mie idee mi sembra fanno da collante a questi due problemi, che forse sembrano indipendenti. Del primo intervento mi ha colpito l’impressione che ne ho avuto (magari scorretta) che i discutesse i termini con cui il gatto e la volpe vogliono realizzare questa democrazia diretta, ma non il fatto, che a volte sembra dato per scontato, che questa forma di governo sia bella, auspicabile, moderna, etica, se fatta nei termini dovuti. Ho i miei grandissimi dubbi su questo punto. Avete esempi di democrazia diretta funzionante? Io proprio no. Forse l’Atene di Pericle? Ho dei dubbi anche su questo. Perché non mi convince la democrazia diretta? Per spiegarmi, mi piace fare l’esempio della legge elettorale. Se non ricordo male, un referendum qualche anno fa ha abolito le preferenze con maggioranza schiacciante. Oggi se dici che sei contro le preferenze passi per un delinquente o giù di lì. Che voglio dire con questo?  Non che gli Italiani siano scemi o voltagabbana, non penso che l’opinione pubblica all’estero sia molto più matura,  penso invece che i problemi siano complessi, che non esistano soluzioni magiche, che il sistema debba essere sempre in evoluzione, e che per essere un minimo efficienti occorra avere delle competenze, studiare i problemi, confrontarsi su soluzioni possibili. Tutto questo richiede tempo ed energie, e non può essere risolto chiedendo il parere a migliaia di persone. Ma vi ricordate i rumori, gli appelli, le strilla per Rodotà Presidente? Lo stesso che dopo qualche mese è stato insultato pubblicamente dal promotore della sua candidatura? E mi spiace, non credo che questo sia dovuto al fatto che Grillo potrebbe essere un mariuolo e un altro invece virtuoso, è proprio il sistema che non può funzionare così. Sempre parlando di sistemi elettorali, ho sentito una volta alla radio un esperto dire che ce ne sono di tanti e complessi, ma che almeno  una cosa è certa, chi prende più voti vince… non colpevolizzo lui, sono sicuro che si è bestemmiato dietro, se si è riascoltato, ad aver detto una simile stupidaggine. Il problema è che l’informazione non può avvenire che così,  poi decidiamo a maggioranza?  Non può funzionare… Mi sono divertito recentemente a fare un esempio sciocco a lezione di una situazione di voto in cui c’erano tre candidati, A,B,C, nel quale a  maggioranza semplice vince il candidato A, col sistema del secondo turno vince B e il vincitore di Condorcet è C! Le facce sorprese degli studenti! Direi che forse non è il caso di prendere decisioni su che sistema adottare tramite referendum popolari. E tutto questo vale in praticamente ogni attività un pochino complessa. Quindi democrazia, ma delegata  (che già è parecchio inefficiente) e non diretta, e con la possibilità i controlli e di poter ritirare la delega.

Tutto questo richiede un minimo di fiducia, e qui arriviamo al secondo intervento. E devo dire che sono d’accordo con l’autore (Simone, il suo blog è segnalato qui accanto) anche se non l’avevo pensata negli stessi termini. Si parla della società italiana, e il punto di discussione è il gusto che sembra essere assolutamente comune a destra sinistra centro, credenti atei agnostici, milanisti interisti e juventini, di poter esercitare il diritto di veto. A me sembra che a noi italiani troppo spesso, almeno nella vita pubblica, piaccia più bloccare le iniziative degli altri che non combattere per portare avanti le nostre, piaccia più contestare e bloccare le idee altrui che non esprimere, portare avanti le nostre. Persino su Facebook, che qualcosa comunque descrive della nostra mentalità, leggo costantemente su quello che qualcuno fa e che è sbagliato, ma mai che si dica: avrebbe dovuto fare in quest’altro modo. Io non credo che un paese abbia una classe politica, un apparato burocratico, un sistema giustizia che sono totalmente avulsi dalla mentalità media del Paese (che esiste, eccome. Provare a trasportare, ad esempio  le vicende amorose di  Hollande in Italia, non riesco a immaginare nulla di più diverso nelle reazioni dell’opinione pubblica). Non starebbero in piedi, penso. Ecco allora il palleggio delle leggi tra camera e senato, e magari di nuovo camera e di nuovo senato, ecco che se una decisione qualunque non ti va puoi sempre rivolgerti al TAR, ecco che non bastano due gradi di giudizio, ecco che per avere giustizia, in campo civile, ci vogliono anni. Per me è tutto frutto della stessa mentalità: meglio impedire di fare, oggi qualcosa a te, anche a costo che tu domani impedisca a me di portare avanti il mio progetto, piuttosto che tu possa fare oggi e io mi prepari a realizzare qualcosa domani. Tutto questo poi porta, per questioni di equilibrio, a un effetto paradossale: che troppo spesso chi riesce a realizzare qualcosa, o molto, lo può fare perché è più prepotente, o corrotto, o peggio ancora.

Di solito, così come tendo alla malinconia nella vita privata, sono invece un ottimista in quella pubblica. Però da qualche tempo a questa parte sono molto inquieto, perché questo inestricabile intreccio di voler mettere tutti il naso in tutto, di voler gestire le cose direttamente, e di conseguente burocrazia e veti incrociati, sta davvero rischiando di rallentare e bloccare tutte le forze fresche e creative senza le quali il paese muore. Credo che questo sia un problema più serio di tanti altri (esempio la pressione fiscale) che pure sono importanti e ci condizionano pesantemente.

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Simone Secchi,  studente vari anni fa a un mio corso, ora professore all’Università Bicocca, nonché amico su Facebook, ogni tanto segnala sul social qualche sua riflessione scritta sul suo blog (segnalato qui a destra). Leggo sempre le sue riflessioni, sia perché scrive bene, sia perché dice cose interessanti, ma anche, lo confesso, perché le mie idee spesso mi sembrano più “giovani” delle sue, e questo mi gratifica visto che anagraficamente non c’è storia, potrebbe essere mio figlio… Le ultime sue riflessioni traggono spunto da un articolo (poco interessante, come lui stesso precisa) sui “nativi digitali”, cioè sulle nuove generazioni, nate nell’era dell’informatica e di Internet. Ecco, qui mi interessa esprimere qualche idea in libertà su questo, piuttosto che dialogare con Simone  sullo specifico di quell’articolo.

E’ assodato che l’uomo ha vissuto alcune vere rivoluzioni, che ne hanno cambiato radicalmente la vita, la filosofia, la psicologia. La prima, la rivoluzione agricola. Da nomade qual’era, l’uomo è diventato animale stanziale dopo aver imparato a coltivare, per godere dei frutti del suo lavoro. E la caccia è stata sostituita dall’allevamento. Poi si passa alle rivoluzioni industriali, che ancora una volta hanno provocato enormi cambiamenti, come ad esempio un grande aumento della popolazione e una  concentrazione di grandi masse di persone negli stessi siti (le città). Ebbene, oggi siamo agli inizi di un’altra rivoluzione, della quale facciamo fatica a capire la portata, perché è evidente che queste analisi vanno fatte a posteriori, e quelle in itinere non possono che essere parziali. Quel che è certo è che questa è una grandissima rivoluzione. Ha, per esempio, comportato la globalizzazione, fenomeno che possiamo amare o odiare ma che ormai è inesorabile. Da un certo punto di vista le grandi migrazioni degli ultimi 20 anni devono forse più alla televisione e a Internet che a un’aumentata capacità di viaggiare. L’Economia del pianeta è in fibrillazione, anche perché la grande facilità di scambi e di trasporti ha reso il mercato completamente non omogeneo; basta pensare a quanto sia impari la competizione di prodotti simili, se uno è prodotto in un paese sufficientemente rispettoso dei diritti umani e attento alle esigenze sindacali e l’altro invece in un regime semi dittatoriale.

Ma io credo che la rivoluzione digitale abbia portato a cambiamenti ancora più radicali nella nostra psiche, di quanto abbia fatto la tecnologia con le nostre abitudini. Facevo a Simone il paragone tra un nativo digitale che gioca a un video game, o usa un social network, e me che guido un’auto. La mia conoscenza della mia BMW e del suo motore è paragonabile a quella che ha un bambino di 6 anni dell’Ipad di suo padre (o, ahimé, del suo Ipad, a volte): cioè praticamente nulla. Eppure io so guidare, il bambino sa utilizzare  l’Ipad, almeno per quel che gli serve.

L’altro giorno, mio nipotino, nativo digitale, a un amico di famiglia che doveva mettergli su un film per la buonanotte, e che gli ha chiesto se era quello che aveva in mano il cd giusto, gli ha risposto: quello è un dvd, ma mi devi mettere su il blue ray… a me sembra tostissimo, ma probabilmente lo penso perché non sono nativo digitale! Questo naturalmente non dice nulla sul livello delle conoscenze dei nativi digitali, né ci può far concludere che sono più esperti di Internet o informatica perché la usano con grande disinvoltura.

Io credo invece che le riflessioni vadano spostate su un piano molto diverso. Quanto questi nuovi strumenti ci hanno cambiato e ci stanno cambiando? Credo moltissimo. E quel che occorre fare è riflettere, riflettere, riflettere, per adeguare i nostri comportamenti alle nuove realtà, e viverle al meglio.

Mi spiego con l’esempio più bello per me. Penso che Internet (e non solo Internet) ci abbia reso molto impazienti. Se penso a quando, non molti anni fa, ero interessato a  un lavoro di qualcuno che non trovavo in biblioteca, mi sembra il medio evo. Scrivevo al tizio, mi affidavo alle poste di due paesi diversi, oltre alla sua gentilezza, e dopo un mese, se mi andava bene, ricevevo le fotocopie di un lavoro, spesso tra l’altro scritto in maniera editorialmente orrenda. Ora se mi interessa un lavoro, lo cerco in rete e se non lo trovo, a parte pochissime eccezioni dopo un minuto non mi interessa più! Sono impaziente! Troppo impaziente. La pazienza è importante; io spiego sempre con grande entusiasmo uno splendido teorema di teoria dei giochi che dice la cosa seguente. Ci sono giochi in cui esistono situazioni in cui tutti stanno bene, ma che sono situazioni irraggiungibili perché individualmente non sono accettabili. Pensiamo al pagare le tasse. Tutti sono d’accordo che è necessario farlo, se tutti lo facessero la società ne avrebbe vantaggi, ma poi dal punto di vista individuale, se non ci sono incentivi a dichiarare il vero, nessuno lo fa perché non è conveniente. Ebbene questo teorema asserisce più o meno questo. Se il gioco viene ripetuto, e se noi siamo pazienti (nel senso che valutiamo i guadagni futuri senza scontarli troppo rispetto al presente, insomma 120 Euro domani sono meglio di 100 oggi) e se pensiamo di avere davanti tanto  futuro per giocare, allora la situazione di benessere sociale (paghiamo tutti le tasse) può essere razionale anche dal punto di vista individuale.

Se siamo più pazienti! Io mi sento di  dedurne che almeno in parte la povertà della vita pubblica di oggi,  il fatto che la gente se ne freghi di assumere comportamenti scorretti, come ad esempio posteggiare l’auto bloccandoti l’ingresso non è (solo) dovuto al fatto che le persone oggi sono peggio di ieri (e perché mai, poi?) ma solo perché siamo troppo impazienti: oggi lo faccio perché non mi interessa il futuro, il fatto che tu domani lo possa fare a me non mi scalfisce più di tanto. E, a proposito, ecco perché una società più giovane è potenzialmente più ricca di prospettive: perché ha più futuro davanti a sé!

In un mondo sempre più tecnologico, sempre più scientifico, pensare, fare filosofia, penso sia sempre più necessario. E lo dovrebbero fare tutti. Vivremmo meglio. Conclusione: non stiamo tanto a lamentarci del fatto che la situazione sembra degenerare sempre più. Accettiamo il nuovo, che porta vantaggi e svantaggi, e pensiamo a come limitare i contro e sfruttare le opportunità.