Per dieci minuti, di Chiara Gamberale
2015
La scrittura, per Chiara Gamberale, è chiaramente un’attività maniaco-compulsiva. Nonostante dica/scriva che spesso è in crisi creativa, in realtà inonda le librerie dei suoi libri… Beh, esistono manie peggiori, e anche meno redditizie. Questo breve romanzo, che era l’ultimo suo (almeno credo) quando l’ho cominciato, certamente non l’ultimo quando l’ho finito (è uscito un suo libro con Gramellini, entrambi nello stesso libro sono indigeribili per me, non lo leggerò), trae spunto da un fatto evidentemente autobiografico, anche se presumibilmente poi c’è anche invenzione letteraria. Chiara è maestra nel narrare la quotidianità, anche quando sfocia nel banale, e nel fare di episodi della vita, anche i più minuti, spunto per un romanzo. E così troviamo sms e twit che costruiscono un libro, o liste della spesa che ne portano via la metà. Questa volta lo spunto viene da una prescrizione che la psicologa le dà, in un momento molto complicato della sua vita (credo che di semplici ce ne siano pochi, nella vita di CG). Si tratta di fare per un certo periodo, tutti i giorni, dieci minuti di cose insolite, mai fatte prima. Devo ammettere che questo incipit mi ha incuriosito non poco. Per capirlo, devo narrare l’antefatto. Parecchio tempo fa ho sofferto di tachicardie e altre amenità varie, che poi ho scoperto essere attacchi di panico. Contrario da sempre a terapie psicologiche tradizionali, ho accettato, dopo aver parlato con un dottore in gamba (il pediatra dei miei figli!) di fare una terapia psicologica breve: otto sedute. Devo dire che da lì il mio modo di pensare è parzialmente cambiato, perché è così che ho scoperto il costruttivismo (anche in matematica), passione intellettuale che mi accompagna ancora adesso; La realtà inventata è uno dei miei libri cardine, P. Watzlawick uno dei miei miti. Ebbene, questa terapia breve prevedeva espressamente una mezzoretta per sera dedicata a pensare cose particolarmente strane, anomale. Ogni volta il compito era diverso, e devo dire che, come Chiara, l’ho sempre puntigliosamente portato a compimento, con una eccezione: un giorno ho sostituito il compito assegnatomi con quello di svuotare il tombino sotto casa. Magari è una storia che scriverò per me un’altra volta, certo anche questa è stata un’esperienza molto particolare, che tra l’altro è piaciuta enormemente al dottore, che ha deciso di introdurre nella terapia anche la mezzora del tombino. Ma torniamo a Chiara, e al suo libro. E’ evidente che l’ho letto con grande curiosità, visto l’antefatto. E’ anche evidente che il mio giudizio sul libro non può essere asettico, proprio per quel che ho raccontato prima. Per cui faccio mio, ancor più rapidamente del solito, il giudizio di Stravagaria, che, vedi il suo blog, dice che come romanzo è deboluccio. Ma l’ho letto volentieri, spinto appunto dall’analogia con la mia esperienza. E a questo, che non è un giudizio di merito, mi fermo, dal punto di vista del libro. Voglio però concludere con un’osservazione su uno dei fatti cardine di tutta la storia (vera, nella sua essenza, credo) raccontata da Chiara: il rapporto con il marito, sfociato nella separazione con lui, dovuta a una sua fuga, e dal tentativo di riavvicinamento, sempre da parte del fuggiasco, da lei alla fine respinto. Devo dire che, a dispetto dell’età forse, mi ritrovo spesso a pensare all’amore, o a ciò che gli altri decidono di definire amore. Forse ognuno di noi ne ha un’idea, profondamente influenzata dalle esperienze personale e delle persone vicine. Quel che a me sembra, dal racconto della Gamberale, è che il suo sia qualcosa che per me è molto difficile definire amore. Non nego affatto il suo senso di attaccamento alla persona, il suo smarrimento autentico quando lui se ne va, le sue emozioni profondissime quando lui torna. Ma tutto questo a me non dà mai l’idea di amore vero, dà piuttosto l’idea del terrore di ogni cambiamento, di un rifugio in un sentimento passato, di una paura incontrollabile di ammettere che si è cambiati o che ci si è sbagliati. Tutti sentimenti veri, profondi, autentici, che però non chiamo amore. Ho visto amore, non spesso ma l’ho visto, e per me è un’altra cosa.
Concordo sugli spunti del tuo articolo e sulla Gamberale che più leggo e meno mi piace. Mi aveva piacevolmente colpito inizialmente ma anche se è una lettura gradevole la trovo sempre più ripetitiva e debole sul piano del racconto. Credo che tra questo e l’ultimo ci sia un altro romanzo (Arrivano i pagliacci) di cui so poco. Di quello a quattro mani ho sentito dire malissimo e non intendo leggerlo neppure io.
Carissima Viv, è appunto una caratteristica questa di un ossessivo compulsivo, non può non stancare… nota bene che probabilmente non scrive tantissimo, almeno rispetto a altri scrittori. Solo che ha una necessità assoluta di “partorire” qualcosa a ritmi insostenibili. Secondo me sa anche che così si rovina un po’ la piazza, ma tant’è… sai che succede anche nel mio lavoro? Gente che se non pubblica tot articoli all’anno muore, anche sapendo che alla fine non può funzionare…